Francesca Pizzimenti
La creazione di un rebus o di una crittografia comporta una notevole profusione di abilità da parte dell’autore, poiché tali giochi enigmistici sottostanno più di altri a esigenze e criteri da un lato di tipo tecnico, ma dall’altro di natura squisitamente logica ed estetica. Ciò che in questa sede ci si prefigge di considerare è prettamente una disamina delle possibilità di soluzione di rebus-o crittografie- a prescindere dalla questione puramente tecnica (prima lettura, ragionamento, cesure, grafemi, coerenza delle chiavi) che porti alla soluzione. L’oggetto delle osservazioni che seguiranno sarà proprio la frase risolutiva tout court, esaminata dal punto di vista della coerenza e della plausibilità, elementi determinanti ai fini di stabilirne la bellezza secondo canoni non arbitrari. Se torniamo con la mente alle ormai paradigmatiche parole di Briga, non si può non rilevare come tra gli elementi costitutivi del triangolo da lui proposto (equilatero o rettangolo, qui forse poco importa) siano presenti, accanto alla Trovata originale e coerenza tra le diverse parti costituenti il rebus e all’Artistica illustrazione e armonicità della scena, la bellezza e[il] contenuto della frase risolutiva (1). A più riprese la vexata quaestio della bellezza e dell’accettabilità di una frase risolutiva torna in primo piano e suscita dibattiti molto interessanti da parte sia degli enigmisti classici, sia dei neofiti che vorrebbero spesso ricevere risposte univoche e chiare a proposito dei problemi più spinosi con i quali essi si trovano a fare i conti. Fermo restando che le soluzioni legate a titoli di libri o film, proverbi o versi celebri oppure nomi geografici o di personaggi famosi rimangono probabilmente le più amate e di effetto, si deve riconoscere che nessuno detiene la verità in tasca e che l’uso e la consuetudine sono il vero ago della bussola capace di orientare le scelte degli autori nel mare magnum delle possibilità. A partire dal supporto fornitomi dalle eloquenti e autorevoli parole di alcuni tra gli autori di giochi più sensibili a questa problematica vorrei giungere a considerare la questione in una prospettiva che dal mero giudizio estetico possa pervenire a valutazioni di matrice linguistica, inerenti quindi a un àmbito di ampiezza ben maggiore rispetto a quello esclusivamente ludico ed enigmistico. L’arte di giocare con le parole presuppone che la lingua sia guardata da un’angolazione particolare, avulsa dalla primaria funzione informativa e comunicativa, per essere manipolata e usata in maniera demiurgica: a partire da elementi noti che si trasformano in altri, operando un processo di individuazione di discretum nel continuum, l’enigmistica agisce sulla lingua elevandone al quadrato le potenzialità espressive e semantiche, vagliate poi secondo criteri tecnici e logico-estetici.
Per riassumere in modo molto sintetico lo status quaestionis mi avvalgo della prima, densa noterella in merito alla plausibilità e accettabilità delle frasi risolutive apparsa sulla Sibilla 1, 1991, p. 23, con la firma di Edgar:
Evidentemente la logicità di tale frase è un presupposto imprescindibile, tuttavia non costituisce un elemento sufficiente a garantire la validità del gioco. In effetti sulla base di criteri estetici consolidati dall’uso, si richiede che la soluzione esprima un’idea non solo logica, ma anche plausibile, nel senso che il concetto affermato non deve apparire costruito ad hoc dal creatore del gioco. Un immediato riscontro di tale affermazione lo si può ottenere pensando alle possibili aggettivazioni di un sostantivo, le quali, in linea di principio, appaiono equipotenti (purché logicamente coerenti), ma che, alla luce di quanto detto, possano essere più o meno accettabili, a seconda dell’affinità semantica tra sostantivo e aggettivo (2)
Ciò che viene stigmatizzato è il ricorso a frasi risolutive che contravvengano a quello che Salvatore Chierchia definisce il comune senso del linguaggio (3); per citare noti esempi di frasi risolutive non accettabili, frigorifero messicano o medico abbronzato sono da ritenersi totalmente prive di plausibilità, non perché non esistano frigoriferi in Messico o medici che prendano il sole, ma perché in esse non si fa riferimento a peculiarità unanimemente riconosciute:
Se mi fosse permesso, direi che in simili casi si dovrebbe parlare aristotelicamentedi proprietà nel senso che un aggettivo si giustifica pienamente se è proprio del sostantivo al quale si attribuisce. Se il tale frigorifero messicano fosse un prodotto di grande mercato internazionale, passerebbe per combinato di comune accettazione come benissimo diciamo p. e. auto giapponese e simili (4)
Come legittimamente afferma Magopide, il criterio sotteso alla determinazione della plausibilità risiede nella logica e, se vogliamo, nei princìpi dell’ontologia aristotelica, che pone in primo piano l’essere (il soggetto) e i suoi accidenti; con terminologia moderna, diremmo che l’accettabilità è data dalla immediatezza con cui si accosta un sostantivo a una delle sue possibili qualità: Non si tratta di discettare sulla natura degli universalia, ma, come osserva Il Maranello
Una frase, per essere considerata «ammissibile», non solo deve avere senso, ma deve averne tanto da potersi presentare come autosufficiente […] Si può concludere che una frase è ammissibile se le varie parti che la compongono non sono legate tra loro per caso o forzatamente o in modo arbirtario, ma sono naturalmente accostate. Quando dico naturalmente, intendo dire come ci si aspetterebbe nel parlare comune. Così come io mi aspetto che un «letto» sia «comodo», «disfatto», «matrimoniale» e non «affascinante» o «pericoloso». È utile avvertire che una frase come «sorvolare l’Atlantico» nel ‘700 non avrebbe avuto granché di senso (5)
In effetti, se non ci si limita alla sola logica, il principio discriminante va ricercato altrove, cioè nella bellezza della frase finale; come ricorda Atlante:
Qui non stiamo discutendo di logica, ma di estetica. D’accordo che è bello ciò che piace, ma a tutto c’è un limite […] 1) La frase «costruita» deve essere il più possibile d’interesse generale; […] 2) la frase breve (all’osso, sostantivo più aggettivo) ha sempre meno difetti di quella lunga; […] 3) è meglio evitare aggettivi numerali e articoli determinativi gratuiti; […] 4) le aggettivazioni devono essere pertinenti, in special modo quelle geografiche (6)
Tradotto sul piano della linguistica, quanto consigliato e auspicato da Atlante prende il nome di unità lessicale superiore o espressione polirematica; il termine, derivato dal greco ρημα-parola, verbo- indica un’espressione composta di più parole, che costituisce un insieme non scomponibile, il cui significato complessivo è autonomo rispetto ai singoli termini in essa presenti (7). A tale proposito ci soccorrono le definizioni e gli esempi addotti da Maurizio Dardano nel suo Manualetto di linguistica italiana:
In genere si definisce il lessico come l’insieme delle parole di una lingua; veramente più che alle parole sarebbe meglio riferirsi alle unità di significato, comprendendo in queste ultime anche unità composte di più elementi: macchina da scrivere, ferro da stiro, ripresa in diretta, scala mobile, tavola rotonda, busta paga, libertà di parola. A questo particolare tipo di composti si dà il nome di unità lessicali superiori. Che si tratti proprio di unità lessicali superiori, e non di insiemi liberi di parole, è confermato dalla stabilità della loro sequenza: la successione dei vari elementi non può essere mutata o interrotta(8)
In realtà, quanto affermato dal linguista trova concreta esemplificazione se si confrontano un’unità lessicale superiore e un insieme libero di parole; mentre all’interno di quest’ultimo è possibile introdurre un elemento, non lo si può fare nel caso dell’unità lessicale superiore: «si può dire infatti una sala grande per ricevere ospiti. Non è invece possibile fare la stessa cosa con l’unità lessicale superiore e dire: una sala grande da pranzo; bisogna dire: una grande sala da pranzo. Allo stesso modo non posso dire: un ferro costoso da stiro, una ripresa bella in diretta, una tavola interessante rotonda; debbo dire: un costoso ferro da stiro, una bella ripresa in diretta, un’interessante tavola rotonda. Come appare, le unità lessicali superiori sono unità lessicali complesse, composte di elementi che in altri contesti hanno autonomia semantica, ma che in quelle combinazioni concorrono a formare un significato unitario non riducibile alla somma dei significati degli elementi costituenti»(9).
Si può affermare che l’unità lessicale superiore viva della sinergia dei propri elementi costitutivi, che si potenziano e si amplificano in virtù della loro inscindibilità; pensiamo a locuzioni come quindici giorni, ormai cristallizzata benché sappiamo benissimo che le due settimane in realtà sono formate da quattordici giorni soltanto. A riprova del fatto che si tratta di nessi inscindibili si può considerare la frequente difficoltà nel renderle in modo opportuno e sovrapponibile nelle lingue straniere, ove le unità lessicali sono di altro tipo La nostra espressione sei mesi in tedesco per esempio trova corrispondenza in ein halbes Jahr, un mezzo anno che sarebbe da noi improponibile: pur corretto grammaticalmente, nessuno di noi direbbe mai: abito a Roma da mezzo anno, mentre è quello che si sente dire spesso dai tedeschi che iniziano a parlare italiano, poiché essi calcano la forma su quella della loro lingua madre. Mezzo anno, pur essendo corretto e analogo a mezzo chilo, in italiano manca della plausibilità e non può quindi essere accettato dai parlanti, venendo percepito come un tratto di originalità o di poca dimestichezza con la lingua da parte di chi lo usasse.
Da quanto detto emerge ancor più chiaramente come uno dei requisiti fondamentali di un testo infatti sia proprio l’accettabilità, che «riguarda l’atteggiamento del ricevente, il quale si aspetta sempre un testo che dimostri coesione e coerenza, che sia utile e rilevante per conoscere cose nuove e per attuare un certo progetto di comunicazione. Questa aspettativa del ricevente è in rapporto con il contesto sociale e culturale e con la desiderabilità dei fini: capiamo meglio ciò che c’interessa e ci piace»(10).
Qui si apre un discorso assai più ampio rispetto a quello di partenza, poiché queste osservazioni investono in toto la sfera del sociale e dei rapporti multiformi tra il parlante, l’ambiente e le situazioni in cui si avviene la comunicazione stessa. Si entra adesso nella sfera di interesse della sociolinguistica, il cui oggetto precipuo sono i «fenomeni linguistici visti sotto l’angolatura della dimensione sociale (assunta per lo più come variabile indipendente). Ci potremmo dunque avviare a riassumere una definizione di lavoro nei termini seguenti: la sociolinguistica è un settore delle scienze del linguaggio che studia le dimensioni sociali della lingua e del comportamento linguistico, vale a dire i fatti e fenomeni linguistici che, e in quanto, hanno rilevanza sociale. […] In sostanza, la sociolinguistica si configura come una sorta di linguistica dei parlanti»(11).
Essendo linguistica dei parlanti, essa si colloca in strettissima relazione con l’ambiente e il milieu in cui i parlanti usano la lingua e fanno scaturire le situazioni comunicative; va da sé che la stretta interrelazione con l’ambiente agisce in maniera determinante nella formazione di espressioni e neologismi, i quali spesso non si creano ex novo, ma sono attinti al repertorio sterminato di cui ogni lingua è depositaria, vivificando l’espressione grazie al nuovo contesto in cui essa viene inserita.
Interessanti osservazioni che possono poi venir generalizzate sono state formulate da Domenico Cosmai a proposito della lingua delle istituzioni della Comunità Europea; esaminando il lessico dei testi comunitari lo studioso ha rilevato come nella maggior parte dei casi «il meccanismo di formazione delle parole senza dubbio più frequente nei testi comunitari è quello che potremmo indicare genericamente come “mutamento di significato”. […] Questo tipo di creazione lessicale è stato suddiviso […] in due ulteriori categorie, a seconda che l’allargamento del significato riguardi un singolo termine (neologismi semantici) o un’unità lessicale più complessa (neologismi combinatori)»(12).
I neologismi combinatori sono quelli che ci interessano, perché sono quelli che danno vita a nuove unità lessicali superiori: «i neologismi combinatori consistono nell’abbinamento di due o più parole in modo da formare un sintagma stabile. […] Questo meccanismo di formazione lessicale è assai frequente e ha dato origine finora a una serie infinita di espressioni, le quali molto spesso si sono affermate anche al di fuori dell’àmbito comunitario e sono divenute di dominio pubblico: si pensi a locuzioni come “fondi strutturali”, “società dell’informazione”, “sviluppo sostenibile”, “posizione comune”, “criteri di convergenza”, “reti transeuropee” o ad altre più complesse come “libera circolazione delle merci”, “organizzazione comune dei mercati” o “paesi candidati all’adesione”»(13).
Perfino un ambiente rigoroso e legato alla formalità e alla burocrazia come quello di Brussel ha quindi fatto i conti con le possibilità offerte dalla creatività della lingua che è sempre produttiva, anche quando attinge a un patrimonio ormai consolidato. Grazie a un processo metamorfico inesauribile essa assume termini afferenti a un campo semantico e li riadatta con l’inserimento in un contesto mutato, rendendoli efficaci e pertinenti sebbene molto lontani ormai dalla loro situazione originaria. Al creatore di giochi che abbia particolarmente a cuore l’ideazione di una bella frase risolutiva, plausibile e unanimemente accettata, non resta quindi che l’imbarazzo della scelta: l’elenco delle polirematiche si amplia costantemente e imbandisce un fastoso banchetto ricco di portate succulente, offrendo una messe sterminata di idee che possono indurre anche i più fantasiosi a lasciare definitivamente chi scrive sul termosifone e i sedili guatemaltechi al loro destino.